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Psicologia
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“Dio, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso, e la saggezza per conoscere la differenza” – Reinhold Niebuhr
Questo breve brano, tratto da un testo più lungo del teologo protestante Reinhold Niebuhr, viene utilizzato com’è noto nell’ambito dei gruppi di auto-aiuto e in particolare dagli Alcolisti Anonimi. Il messaggio contenuto in questo poche righe è il medesimo espresso da un maestro spirituale come Ekhart Tolle nel suo libro Il Potere di Adesso e da tutto il filone della Nuova Coscienza Emergente.
Per comprendere il senso più profondo di queste parole, dovremmo partire da un famoso discorso di Buddha in cui si dice che la sofferenza che chiunque prova è generata da due frecce.
La prima è inevitabile, la seconda no.
La prima freccia: quel che ci accade nella vita
Indice
La prima freccia coincide con il dolore che deriva da un evento della vita che ci ferisce. Pensiamo, per esempio, al momento in cui veniamo lasciati da un partner.
È del tutto normale che l’abbandono da parte di una persona che amiamo e con la quale abbiamo trascorso tanto tempo ci faccia soffrire. Qualsiasi relazione, anche la più sana, prevede una quota di dipendenza dall’altro.
Io ho investito energia emotiva e libidica in quella figura. Ho fatto progetti per il futuro, ho sperato e sognato. Inevitabilmente, quando vedo l’altro andare via, proverò sentimenti di tristezza, senso di vuoto, rabbia, delusione.
È una parte di sofferenza sana.
È quel che avviene anche di fronte a un lutto oppure quando si perde il lavoro, quando si viene offesi e oltraggiati in qualche modo. Cioè quando avviene un qualche sconvolgimento nella nostra vita, qualcosa a cui non eravamo preparati. Quello che proviamo è un doloro fisiologico, naturale.
Bisognerebbe preoccuparsi, piuttosto, se non sentissimo dolore dopo eventi del genere.
Una situazione del genere sarebbe indice di una struttura di personalità compromessa, scissa, caratterizzata da alessitimia cioè dalla totale assenza di emozioni.
La seconda freccia: come reagiamo a quel che ci accade
C’è poi la seconda freccia relativa non tanto a quel che c’è fuori di noi, ma a quel che accade dentro di noi. Sono i pensieri che io genere rispetto a questa sofferenza ovvero il modo in cui io reagisco a quel che mi è accaduto. Spesso, questi pensieri sono ridondanti, intrusivi, invasivi e distorti, relativi a una appercezione cioè a una percezione degli eventi distorta in senso negativo.
Potrei cominciare a ruminare rispetto all’evento anche per parecchie ore al giorno, persino per tutto il tempo in cui sono sveglio.
È così che si genera un secondo tipo di sofferenza, quella patologica, che a partire da un aspetto nevrotico relativo a un pensiero ossessivo-compulsivo che prende il sopravvento sulla consapevolezza, può sfociare in un assetto mentale caratterizzato dalla depressione.
Cerchiamo di capire meglio la questione.
La nostra sofferenza, in gran parte, non deriva da quello che ci capita nella vita, ma da come percepiamo, gestiamo e viviamo gli eventi che ci accadono.
Il modo in cui viviamo un evento, più o meno stressante, ha a che fare con la seconda freccia, che è evitabile e che nella maggior parte dei casi costituisce la maggior parte della sofferenza.
È per questo che bisogna lavorare sull’accettazione.
Accettare significa non rimanere all’interno di un pensiero che cerca di respingere e negare la realtà in modo tanto compulsivo quanto inefficace e inutile, del tutto impotente.
Il vero potere mentale, come dice Ekhart Tolle, risiede nella non reazione. Il vero potere mentale è non reagire nel senso del pensiero, essere capaci di non attivare una ruminazione dolorosa del pensiero, quel logorio incessante che ci rode dall’interno senza condurci da nessuna parte.
La via della consapevolezza: essere presenti a sé stessi
Il modo per soffrire il meno possibile è quello di stare a contatto con la sofferenza (prima freccia), percependola per quello che è. Il rischio, infatti, è che la reazione mentale alla sofferenza si incanali all’interno di una dinamica melodrammatica.
Quando manca consapevolezza, quando non c’è uno spazio tra noi stessi e il pensiero tanto che ci identifichiamo in esso, allora il pensiero reagisce all’elemento stressante creando il dramma e il melodramma, una versione mistificata degli eventi.
La situazione viene vista in modo parziale, si perde la capacità di valutare le cose nel loro insieme, da un punto di vista globale e unitario.
Per tornare a quanto espresso nella preghiera della serenità utilizzata nei gruppi di auto-aiuto: va bene cercare di modificare una situazione che ci va stretta, tentare di cambiare quello che ci fa stare male e sul quale abbiamo potere di intervento.
Se ho una malattia, è del tutto normale che cercherò di curarmi nel modo migliore che trovo. Se vengo aggredito, cercherò di difendermi. Se perdo il lavoro, mi attiverò per cercare qualcos’altro per poter mantenere me stesso e la mia famiglia.
Ma ci sono alcuni aspetti, ci sono alcune situazioni sulle quali non abbiamo nessun controllo, nessun potere. In quei casi, è molto meglio saper accettare, ma non con rassegnazione passiva. Piuttosto con il potere della consapevolezza che ci consente di non generare pensieri distorti, ruminanti e melodrammatici, i quali costituiscono il 90% della sofferenza, che può essere evitata.
Per fare questo, è importante sviluppare quella che in psicoanalisi è chiamata consapevolezza. L’analista accompagna il paziente e lo aiuta a non cadere all’interno di questo meccanismo perverso fatto di nevrosi mentali ossessive e deleterie.
Gli stessi risultati possono essere ottenuti nell’ambito di un percorso di psicoterapia cognitivo-comportamentale, nel corso del quale il terapeuta aiuta il paziente a mantenere una buona igiene mentale, evitando di lasciarsi andare a pensieri ripetitivi.
Nell’ambito delle pratiche di meditazione associate al buddhismo e alla nuova coscienza emergente, invece, si insegna la non reazione, che viene definita presenza. Se si è presenti a sé stessi, nel qui e ora, si riesce ad avere un maggior controllo sulla propria mente, impedendo che il pensiero prenda il sopravvento.
Allo stesso modo, un terapeuta man mano che diventa esperto, deve essere sempre più in grado di leggere dinamiche mentali trasversali a vari orientamenti, scuole di pensiero e approcci, poiché quelli che abbiamo elencato sono tutti modi diversi di dire sempre la stessa cosa.
La via per imparare a soffrire meno è lavorare su sé stessi e prendere consapevolezza.