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Psicologia e cinema
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di Giorgiana Ciocci
Quasi sin dai primordi il cinema è stato oggetto dell’attenzione di psicologi e psicoanalisti. Metz ritiene che “ogni riflessione psicoanalitica sul cinema possa essere definita come uno sforzo per sganciare l’oggetto-cinema dall’immaginario e per annetterlo al simbolico”.
Negli ultimi tempi, anche grazie alle nuove tecnologie a disposizione, è stato registrato un aumento di esperienze e pubblicazioni che animano e rinnovano il dibattito su cinema e psicoanalisi. Già precedentemente agli anni ’60 molta filmografia aveva parlato del disagio mentale e della cura; si pensi all’ Hitchcock di Io ti salverò del 1945, nel quale Ingrid Bergman, nelle vesti di una giovane psicologa, salva Gregory Peck dalla follia e dalla colpa di un delitto mai commesso. Oppure La fossa dei serpenti di Litvak, del 1948, in cui la sensibile Olivia de Havilland attraversa l’orrore del manicomio per uscirne, riappropriandosi del suo passato.
Il cinema trovò di conseguenza una subitanea collocazione in quelle pratiche di liberazione attraverso le quali i degenti di ospedali psichiatrici iniziarono a uscire dai reparti per ritrovarsi in momenti di socialità che avevano lo scopo di restituire loro un’umanità e un’identità di cui spesso erano stati privati. In questo modo il cinema diventa portatore di potenti valenze terapeutiche risultando in grado di suscitare emozioni immediatamente disponibili ma anche esprimibili e comunicabili.
Il cinema come forma di terapia
In molte situazioni terapeutiche l’immagine cinematografica è stata utilizzata come indicatore delle preoccupazioni interiori dei pazienti dal momento che attraverso il vedere si innescava un percorso che li avvicinava al sentire ” su se stessi”. Il cinema dunque, insieme a altre forme espressive, fungeva e funge tuttora da sfondo e mezzo di comunicazione nel linguaggio della vita quotidiana.
Terminata la visione di un film siamo portati a riflettere su ciò che si è visto, su come lo si è vissuto, le emozioni provate sono lo specchio di ciò che c’è in noi di più inespresso. Lo spettatore dovrà cercare le parole di un pensiero prima non pensato ma articolato in affetti ed emozioni e non ancora detto. Assistendo a un film viene interiorizzato un qualcosa che è in grado esso stesso di generare, di creare una nuova opera d’arte, nuova perché arricchita di noi stessi. Il cinema e le altre forme d’arte in grado di esprimere e catturare emozioni, possono far sentire meno soli, possono suggerire percorsi di comprensione e favorire insight.
Cinema, inconscio e regressione
Il film è un oggetto esterno ma nello stesso tempo anche interno: l’inconscio dello spettatore ha infatti una sua parte durante il film. Viene trasformato, “ricostruito”, vengono alimentati sentimenti ed emozioni che, portati all’esterno, assumeranno una forma e un significato pienamente personale.
Possiamo notare come durante e a seguito della visione di un film emergano paure, desideri, sogni e speranze, che sono esclusivamente nostri e che rappresentano le parti scisse o incomprese del Sè. L’espressione di esse, durante un lavoro di psicoterapia, porta domande, dubbi e confronti che andranno a costituire insieme un nuovo significato, una possibilità di avvicinarsi ad un contesto in un modo diverso o a “riscoprirsi”.
Basti pensare come durante la visione, in una sala cinematografica, l’Io approda a uno stato di regressione; in questo modo l’inconscio intrattiene un rapporto più vivido e fecondo con il film di quanto la nostra coscienza non sappia. L’Io dello spettatore è diviso in due: una parte non crede alla finzione filmica e conserva una certa distanza da essa, l’altra mantiene viva la credenza in modo da mantenere l’illusione. Il rilassamento dello spettatore, il suo rapimento, la situazione di apparente intimità con gli altri spettatori sconosciuti, ma di sostanziale solitudine, ricordano lo stato di reverie del bambino che autoproduce immagini e guarda un “altro luogo”.
Ogni spettatore è nudo, esposto, ricettivo. Nessuno dovrà invadere il suo spazio mentale con uno stimolo intrusivo. Bisognerà salvaguardarlo in un silenzio e in un’oscurità che favoriscono ciò che Winnicott ha chiamato inintegrazione.
“Nel buio della sala, soli, insieme agli altri, gli individui rilassati come bambini, ritrovano, nelle immagini e nelle trame del film, le braccia e la mente della madre”.
Rapito nell’esperienza globale del cinema, lo spettatore ritorna dunque nel grembo acquatico iniziale e smette di pensare compiutamente. In uno stato “inintegrato” quasi perde i confini del corpo e del pensiero e il film diventa anch’esso un veicolo che lo trasporta all’origine.
Lo spettatore si concede al potere, che il cinema esercita, dello spaesamento.
Questo spaesamento si verifica a più livelli, voglio dire che ammette gradi differenti. La meraviglia, in confronto alla quale il merito di un determinato film è poca cosa, risiede nella facoltà accordata al primo venuto di astrarsi dalla propria vita quando il cuore glielo comanda, almeno nelle grandi città, non appena varcata una di quelle porte che danno sul nero. Dall’istante in cui ha preso posto fino a quello in cui scivola nella finzione che si sviluppa davanti ai suoi occhi, egli passa attraverso un punto critico così avvincente e così impercettibile come quello che unisce la veglia al sonno (…) ( Breton, 1951).
Bibliografia
Carta, S. (2004). Sull’esperienza dello spettatore. Edizioni Magi
Cortese, M. (2004). Progetto immagine, cinema e azione simbolica. Edizioni Magi.
Metz, C. (1980). Cinema e psicoanalisi. Il significante immaginario. Marsilio editori.
Russo P., (2004). Gruppo e cinema. Ed. Magi.
Cinema e Psicoanalisi
ultima modifica: 22/04/2017
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