BY: admin
Psicoterapia
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Dieci donne di Matilde Serrano si configura come un viaggio-racconto all’interno di un universo esclusivamente al femminile in un setting del tutto particolare, quello di una seduta di terapia in cui la figura del terapeuta, in realtà, è assente. Le donne di cui parla il titolo non sono altro che le nove pazienti, provenienti da realtà e ambienti molto diversi tra loro, cui si aggiunge – più attraverso le parole che nella presenza fisica – la psicoterapeuta Natasha. Si tratta di un incontro finale tra persone che hanno intrapreso un percorso di psicoterapia per i motivi più disparati, anche se la parola più ricorrente è “depressione”.
Il fulcro, però, è la narrazione: ciascuna di queste “donne in rinascita” racconta alle altre presenti la propria personale esperienza, andando ad individuare con profonda consapevolezza i nodi critici, i punti dolenti, le cause profonde di atteggiamenti e modelli relazionali. La narrazione per bocca di ciascuna delle donne-pazienti che dice “io” ed espone lungo il filo della memoria il proprio vissuto è la forma più sostanziale della terapia, della parola che cura. Non c’è dialogo proprio perché ciascuna di loro si è resa responsabile di sé: il viaggio psicoterapeutico ha raggiunto il suo scopo finale, rendere il paziente in grado di essere terapeuta di sé stesso.
Ma Dieci donne è anche un modo per affrontare temi che sono allo stesso tempo individuali e universali, la storia particolarissima di un individuo e, allo stesso tempo, quella di tutti. Ne possiamo passare in rassegna brevemente alcuni, cogliendo il nocciolo delle singole questioni.
Francisca: il modello materno da scongiurare
Ad inaugurare il racconto personale è Francisca, sposata e con due figlie, le cui prime parole sono “Odio mia madre. Oppure odio me stessa”. Un inizio che può sconvolgere, considerando la venerazione che di solito si ha per la madre, il simbolo dell’accudimento e del conforto per eccellenza. Ma la madre di Francisca è fredda e ostile, incapace di esprimere affetto nei confronti della figlia fin dalla sua nascita.
È così che la donna cresce alla continua ricerca dell’approvazione materna, privata di quell’accettazione assoluta e incondizionata che ogni bambino dovrebbe ricevere. Sono carenze che incidono nella coscienza in formazione la convinzione di non valere assolutamente nulla poiché quella che dovrebbe essere la fonte di amore primaria è completamente arida. Non c’è colpa vera e propria da parte della madre poiché anch’essa è cresciuta all’ombra di una madre assente: è una catena che si perpetua nel tempo poiché l’imprinting ricevuto fin da bambini, quando si è materia malleabile nelle mani degli adulti di riferimento, si ripropone. E la paura profonda di Francisca è proprio quella di essere come la madre e imporre ai propri figli quella stessa maledizione. Soltanto la consapevolezza e il costante lavoro su di sé consentono di sfuggire all’ereditarietà del modello materno.
Mané: la vecchiaia e la solitudine
Viene poi Mané, la bella Mané, l’attrice povera poiché dopo una certa età nessuno la vuole più sul palcoscenico. Lei rappresenta la donna, più in generale l’essere umano, che non vuole arrendersi all’evidenza del tempo che passa e cerca in ogni modo di nascondere l’età, sentendo pesantemente su di sé il giudizio altrui. Emblematica la scena in cui, dopo un appuntamento fallimentare, torna a casa e messasi davanti allo specchio si trucca fino a diventare una “bimba grottescamente invecchiata”.
Alla vecchiaia si accompagna un altro grande problema, che è in realtà la causa profonda della sofferenza di Mané: il senso profondo di solitudine, la mancanza che le deriva dall’aver perduto in giovane età l’uomo amato. L’angoscia viene meno solo nel momento in cui si rende conto che l’amore ricevuto è stata la sua più grande ricchezza, l’elemento trasformativo per eccellenza. Non serve vivere nel passato. Ma è necessario ogni giorno, in uno sforzo continuo, in un movimento che non ha fine perché nessuno è mai definitivamente risolto con sé stesso, svegliarsi e riappacificarsi con sé.
Simona: la dipendenza e il rispetto di sé
Simona è una femminista convinta che è passata attraverso una relazione totalizzante con il proprio uomo, finita dopo vent’anni. Una relazione terminata il giorno in cui Simona si rende finalmente conto di avere accanto un individuo che soffre di teledipendenza al punto da non portarla immediatamente all’ospedale quando le si rompono le acque perché aspetta la fine del primo tempo di una partita, da abbandonarla in una casa da sola perché lì non c’è il televisore. È una storia di dipendenza doppia, in realtà, perché come ammette la stessa paziente è “colpa sua” non averlo lasciato prima e avergli permesso di proseguire un rapporto a cui mancava la base fondamentale: il rispetto dell’altro e l’impegno, il collante che permette di andare avanti quando si spegne la passione. Simona ha sofferto di dipendenza affettiva, ma l’ha riconosciuto e ha scelto di lavorare su di sé per approdare alla condizione basilare per vivere pienamente: stare bene con sé stessa.
Layla: il trauma e l’alcolismo
Arriviamo, infine, a Layla, insegnante all’università, cilena di seconda generazione poiché le sue origini sono arabe. La sua vita è cambiata per sempre il giorno in cui ha deciso di visitare la terra da cui proveniva sua madre, il Medio Oriente. A Gaza la fermano tre militari che abusano di lei. Layla, tornata in Cile, è convinta di aver assorbito l’urto senza riportare danni tanto da dire “credevo di esserne uscita indenne”. In realtà ha subito uno shock che la sua psiche non è in grado di assimilare, aggravato dalla scoperta di essere incinta. Incinta dopo uno stupro.
Il trauma giace al di sotto del livello di coscienza, l’esperienza vissuta continua a ripresentarsi anche se Layla non se ne rende conto. La caduta nell’alcolismo è la spia del disagio che non è riuscita a manifestare. Perché Layla non ha raccontato a nessuno quello che ha subito, fino al momento della psicoterapia. Le parole che con cui conclude il resoconto dell’evento potrebbero essere applicate a ogni individuo: “Natasha mi ha detto che solo raccontando la mia storia avrei potuto mantenere il controllo su di essa. […] Per poter guarire, qualsiasi persona deve essere capace di farsi carico dei propri ricordi”.
Dieci donne: il potere terapeutico della parola
ultima modifica: 27/10/2017
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