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Psicoterapia
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Per la maggioranza degli individui sesso e identità di genere corrispondono, sono perfettamente allineati. Si nasce in un corpo femminile, che ha tutte le caratteristiche biologiche connesse e si percepisce, allo stesso tempo, di essere donna. Allo stesso modo, si viene al mondo maschi e ci si sente tali, in tutto e per tutto. Eppure non è esattamente così. Sesso biologico e identità di genere non sempre corrispondono. Quando ciò avviene, ci si trova di fronte alla cosiddetta disforia di genere, una condizione che comporta profonda sofferenza psicologica in chi la vive.
Diagnosticare la disforia di genere
Indice
La diagnosi di disforia di genere segue alcuni parametri, esplicitati nel DSM5, il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Sostanzialmente, quello che il terapeuta osserva, è un disagio profondo caratterizzato dal forte desiderio di appartenere al sesso opposto a quello di origine e di essere trattato come un individuo dell’altro sesso.
L’eventuale percorso di transizione si accompagna sempre a un percorso di tipo psicologico, che dà effettivamente il via al cambiamento. Prima che l’endocrinologo somministri gli ormoni, estrogeni nel caso di un passaggio da maschio a femmina (Male to Female, MtF), e testosterone nel caso di passaggio da femmina a maschio (Female to Male, FtM), è lo psicoterapeuta abilitato o lo psichiatra a valutare la situazione e firmare il certificato che consente di iniziare l’iter di riassegnazione del sesso.
Lo psicoterapeuta utilizza vari strumenti nel corso delle sedute per arrivare alla diagnosi. Per esplorare l’identità di genere del paziente si possono usare test psicodiagnostici come il test della macchie di Rorschach e il test del disegno della figura umana. Altro strumento fondamentale è il colloquio clinico, durante il quale devono emergere i punti enumerati dal Dsm, in particolare il forte disagio per la propria condizione e la sensazione di appartenere all’identità del sesso opposto.
Chi soffre di disforia di genere vuole essere visto, conosciuto e amato come persona del sesso opposto a quello in cui è nato. Proprio per questo, spesso non riesce a instaurare e coltivare una relazione d’amore né un rapporto di tipo sessuale. Prova repulsione per il proprio corpo e per gli organi genitali. Tutto questo può comportare umore depresso e incide profondamente sull’autostima poiché non si riesce ad avere un rispecchiamento autentico. Gli altri non sono in grado di vederlo per come realmente si sente.
Il percorso di psicoterapia che accompagna la transizione
Una volta cominciato il percorso di transizione, lo psicoterapeuta accompagna il paziente attraverso le diverse fasi. Il suo intervento è fondamentale sotto diversi punti di vista. Innanzitutto, offre alla persona uno spazio entro il quale pensare la perdita. L’individuo, infatti, ha bisogno di elaborare il lutto per la perdita di una parte di sè, anche fisica, del suo corpo, che sta mettendo da parte. Una componente che, comunque, è portatrice di un forte significato simbolico. Attraverso il colloquio e con il supporto del terapeuta, inoltre, può capire che diventare uomo o donna, acquisire l’aspetto fisico che sente corrispondente alla propria identità, non significa abolire la parte femminile o quella maschile. Una parte, maschile o femminile, viene in primo piano, l’altra resta sullo sfondo. Ma è sempre presente e non può e non deve essere cancellata.
La terapia, inoltre, consente anche di capire fino a che punto della transizione ci si può spingere. In quale fase ci si sente a proprio agio. Non tutti, infatti, portano a termine il processo, arrivando alla riassegnazione definitiva del sesso, con l’asportazione dei genitali e la ricostruzione chirurgica. Non si può sapere subito quando si intende fermarsi o in quanto tempo terminare la transizione, quando effettuare i vari passaggi. Ciascuno ha bisogno di sperimentare su di sé la propria condizione, esplorare attraverso la terapia emozioni e sentimenti connessi alle varie fasi.
A questo proposito, può essere molto utile lavorare sui sogni. Spesso, infatti, durante la terapia si verifica un sogno ricorrente che ha a che fare con lo specchio, simbolo dell’identità. Un sogno che si trasforma ed evolve nel corso del tempo, man mano che la nuova identità viene elaborata. Inizialmente, nel sogno ci si guarda allo specchio e la propria immagine risulta oscillante, talvolta maschile, talvolta femminile.
In un secondo momento, nel caso di un individuo biologicamente uomo che sta affrontando il percorso per diventare donna, lo specchio rimanderà un’immagine in cui ci si vede – per esempio – con il seno, ma con il volto sfumato, non ancora definito. Poi ci si potrebbe trovare a guardare nello specchio un volto femminile, ma non ancora il proprio. Infine si arriva a sognare sé stessi con il sesso autentico, quello che si percepisce come proprio. Il sogno si evolve in parallelo alla psicoterapia che consente di elaborare la nuova identità, di rafforzarla e coltivarla.
Nella pratica clinica si nota anche una certa tendenza. Per una personalità introversa la spinta al cambiamento è più interiore, l’individuo ha bisogno che il suo corpo rispecchi l’identità a prescindere dal contesto relazionale. Per una personalità estroversa, invece, la spinta viene più dal desiderio di essere visto in un determinato modo dall’altro.
Lo psicoterapeuta affianca il paziente anche dopo l’intervento chirurgico per la riassegnazione del sesso. Il paziente, infatti, ha bisogno del suo supporto per integrare il prima e il dopo. La terapia serve a contrastare l’atteggiamento per il quale tra i due momenti, prima dell’intervento e dopo l’intervento, si crea una rottura. In alcuni casi chi ha fatto il cambio di sesso ha come l’impressione di esser senza passato, perde il contatto con la propria vita precedente, tronca i rapporti con chi lo conosceva con la sua vecchia identità.
Compito del terapeuta è proprio evitare questa spaccatura. La terapia serve a comprendere che il proprio passato va accettato, non annullato. È una realtà, parte del proprio bagaglio che può essere portata a valore.