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Psicoterapia
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Quando si comincia un percorso di psicoterapia, si potrebbe pensare che il terapeuta, forte di anni di autoanalisi, di centinaia di sedute con altri pazienti, di esperienza e vita accumulata, abbia in tasca la soluzione ai nostri problemi. Gli stessi terapeuti, magari all’inizio della loro formazione, si crogiolano nell’illusione di poter essere “completamente analizzati” o “completamente risolti”.
Ma la pratica clinica quotidiana o, più semplicemente, la vita mette di fronte a un’evidenza: nessuno è immune alle tragedie dell’esistenza. Scrive Yalom nel libro “Il dono della terapia” che “ognuno – e questo comprende sia i terapeuti che i pazienti – è destinato a sperimentare non solo l’allegria della vita, ma anche i suoi inevitabili corollari: oscurità, disillusione, invecchiamento, malattia, solitudine, perdita, mancanza di senso, scelte dolore, morte”.
La psicoterapia come viaggio in sé stessi e con l’altro
Indice
Paziente e terapeuta, cioè, sono accomunati dallo stesso percorso, dalle medesime sfide da affrontare. Si dice spesso che la psicoterapia è un viaggio, un percorso di scoperta e riscoperta di sé stessi e delle proprie risorse interiori, attraverso l’introspezione, l’analisi, l’interpretazione dei sogni, e soprattutto – nel caso delle sedute di psicoterapia individuale – il particolare rapporto che si instaura con il proprio terapeuta, l’alleanza terapeutica. Un rapporto fondato sulla fiducia reciproca, sull’onestà, sull’empatia e la capacità di accogliere l’altro.
Paziente e terapeuta sono compagni di viaggio: l’insegnamento di Herman Hesse
Per spiegare questa visione della psicoterapia, in cui paziente e terapeuta sono fianco a fianco, quasi allo stesso livello, Yalom propone la rilettura di un racconto di Herman Hesse, contenuto nel libro “Il giuoco delle perle di vetro”. Si parla di due diversi guaritori, entrambi molto noti, Joseph e Dion. Le loro figure sono assimilabili a quelle di due psicoterapeuti.
Joseph cura chi viene da lui attraverso un ascolto silenzioso e ispirato. Accoglie i pellegrini, siede con loro e aspetta che parlino, sfogando le proprie ansie, le preoccupazioni e i dolori. Tutti si fidano di lui e vanno via come liberati dal senso di oppressione che li faceva soffrire.
Dion, più anziano di lui, lavora in modo più attivo. Non aspetta che siano i suoi pazienti a rivelargli i loro più oscuri segreti, ma indaga a fondo. Scruta nel cuore di chi gli sta davanti, ne indovina i peccati inconfessabili, giudica e punisce, infligge delle penitenze e impone delle riparazioni. Anche lui è efficace, anche se ha un metodo completamente diverso.
Un giorno, però, dopo che per tanti anni entrambi hanno continuato nel loro operato, guarendo chiunque andasse da loro, Jospeh si ammala. Non è un male di tipo fisico, ma qualcosa di più intimo, che lo getta nella disperazione. Il disagio che prova gli causa uno sconforto profondo, lo porta anche a condotte autolesive, a gesti di tipo autodistruttivo. Vive una depressione e non sa come uscirne. I suoi metodi terapeutici, infatti, non funzionano. L’unico modo per trovare una cura, dunque, è mettersi in viaggio e andare alla ricerca del suo eterno rivale, il guaritore Dion.
Una sera, mentre fa sosta in un’oasi, incontra un altro viandante, molto più anziano. I due cominciano a parlare: si raccontano i propri progetti e Joseph rivela la sua meta ultima e lo scopo del cammino che ha intrapreso. Il suo anonimo interlocutore, allora, gli si propone come guida lungo la strada. Dopo aver viaggiato per un tratto insieme, il vecchio viaggiatore rivela la sua vera identità: è proprio lui Dion, l’uomo sulle cui tracce Joseph si è messo da giorni e giorni. Conoscendo il motivo della ricerca, l’anziano guaritore propone al giovane di seguirlo nella sua casa e lavorare con lui. Inizialmente ne fa il proprio servitore, poi lo eleva al rango di vero e proprio allievo. Alla fine lo equipara a sé, ponendoselo accanto, nominandolo suo collega nella pratica terapeutica.
Anni dopo, però, Dion si ammala gravemente. Sul letto di morte, con le ultime forze che gli rimangono, chiama a sé l’allievo e amico di una vita per confidargli un grande segreto: la sua voce ripercorre il passato, raccontando di quel loro fortunato incontro nell’oasi, quando Joseph lo cercava per guarire. E aggiunge la parte della storia che ha sempre taciuto e tenuto per sé: nello stesso periodo, lui stesso era caduto nella disperazione, stava vivendo uno dei momenti più terribili della propria esistenza e aveva pensato di trovare qualcuno che lo potesse aiutare. Aveva proprio sentito parlare di un certo Joseph e, quando lo incrociò per caso, gli sembrò un segno del destino.
Tutto il periodo in cui hanno vissuto insieme, fianco a fianco, va visto in un’ottica di reciproco scambio e continuo miglioramento. Non è solo Jospeh ad aver lavorato su sé stesso affiancando il maestro, non solo lui è guarito, cresciuto. Anche Dion ha ricevuto tanto. Entrambi hanno avuto l’aiuto necessario per andare avanti e progredire, anche se in modi diversi.
Joseph ha trovato qualcuno che lo consiglia, lo assiste, lo istruisce, gli indica la strada, lo tratta quasi come un figlio.
Dion, allo stesso tempo, riceve un amore filiale, trova gratificazione nel dare supporto, nell’essere utile a qualcun altro al di fuori di sé stesso, nell’avere compagnia, rispetto e conforto nella propria solitudine.
Maestro e allievo, guaritore e guarito, terapeuta e paziente camminano insieme, fianco a fianco. La loro umanità li accomuna, quando si guardano e si parlano, possono riconoscersi l’uno nell’altro. C’è una sottile empatia, un coinvolgimento. Questo rapporto può essere ancora più profondo, nel momento in cui ci si rivela per quello che si è. Yalom, infatti, sottolinea che forse i due guaritori avrebbero tratto maggior beneficio dal loro lungo rapporto se ci fosse stata, fin da subito, completa onestà e sincerità. Un’apertura maggiore, una maggiore disponibilità ad ammettere la propria condizione, avrebbe potuto – probabilmente – determinare altri sviluppi.