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Psicologia
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di Simone Ordine
In quel tempo, Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per esser tentato dal diavolo. E dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, ebbe fame.
Sull’orribile sfondo di fumo dei falò degli eretici arsi vivi, nell’episodio del Grande Inquisitore, Dostoevskij racconta di un popolo debole, che ha perso la libertà, soggiogato dal controllo mentale e temporale di una chiesa posta al servizio del demonio. Ogni giorno che passa l’avvertimento del grande pensatore russo, riguardante le terribili tentazioni cui sono sottoposti coloro che assumano nell’organizzazione sociale il ruolo deputato alla cura dell’interiorità, manifesta di più la sua incredibile preveggenza: che la voce di tale avvertimento riecheggiante attraverso i secoli giunga alla coscienza di noi terapeuti con tutta la sua vibrante potenza, poiché noi prima di tutti siamo oggi chiamati a sopportare le tentazioni del miracolo, del mistero e dell’autorità, al fine di custodire la libertà degli uomini di poter essere degli esseri umani!
Il grande precursore della psicoanalisi, il poeta filosofo Friedrich Nietzsche dichiara che un solo autore, Fëdor Dostoevskij, è stato in grado di insegnargli qualcosa nel campo della psicologia. In merito al celeberrimo romanziere, Sigmund Freud pronuncia parole che hanno il sapore dell’assoluto: “I Fratelli Karamazov sono il romanzo più grandioso che mai sia stato scritto, l’episodio del grande Inquisitore è uno dei vertici della lettura universale, un capitolo di bellezza inestimabile…”. Non v’è dubbio che Dostoevskij debba esser considerato come un maestro per tutti coloro che si addentrino nelle “Memorie dal sottosuolo”, nei sentieri della riflessione psicologica. Nelle righe che seguono analizzo brevemente alcuni nessi di significato rintracciabili tra il passaggio del Grande Inquisitore e la moderna psicoterapia. Il brano in questione possiede una densità di significati vertiginosa, posta ben oltre i limiti delle mie capacità analitiche, per tanto circoscriverò le mie riflessioni alla sola pagina riguardante la vittoria di Gesù sulle tentazioni postegli dal potente spirito del male, durante il digiuno nel deserto. Dostoevskij fa dire a Ivan, uno dei personaggi chiave del romanzo, nonché alter ego dello scrittore stesso, che le tre domande con cui lo spirito del deserto tenta il figlio dell’uomo sono d’una tale profondità e preveggenza che tutta la sapienza della terra non sarebbe stata in grado di pensarle. Il demonio comincia chiedendo a un Gesù affamato da quaranta giorni di digiuno di trasformare le pietre in pane; dopo di che lo pone sul pinnacolo del tempio, incitandolo a gettarsi nel vuoto, in modo tale che gli angeli nell’afferrarlo palesino la sua origine divina; infine il sapiente spirito del male tenta Gesù con l’offerta del potere temporale, con la “Porpora di Cesare”. Secondo il filosofo russo con queste domande il demonio sottopone Gesù alla tentazione di abolire la libertà degli uomini al fine di controllarli per la loro stessa felicità attraverso il miracolo, il mistero e l’autorità, le sole tre forze in grado di “vincere e catturare per sempre la coscienza di questi impotenti ribelli”. Nelle “Lettere sulla creatività” Dostoevskij afferma che la chiesa di Roma, per esser sprofondata dalla testa ai piedi in tali tentazioni, dev’essere considerata l’incarnazione stessa dell’anticristo. Ma – e qui vengo agli aspetti più propriamente psicologici della problematica in questione – non è solamente la cultura cattolica a doversi confrontare con la tentazione di controllare le masse per mezzo del miracolo, del mistero e dell’autorità, bensì tutta la cultura occidentale, compresa ovviamente quella psicologica, che in tale terreno affonda le proprie radici.
Il miracolo
E dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, ebbe fame. Il tentatore, allora, gli si accostò e gli disse: “Se sei Figlio di Dio, di’ che questi sassi diventino pane”. Ma egli rispose: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. (Vangelo)
Chi come quest’uomo fra quattro pareti ha alzato la voce contro l’accaparramento del godimento da parte di coloro che accumulano sulle spalle degli altri l’onere del bisogno? (Lacan)
Qualsiasi terapeuta nella pratica d’ogni giorno deve confrontarsi con la tentazione di fornire il pane al posto dell’essere, di chiudere gli orizzonti mentali fornendo risposte e soluzioni piuttosto che dilatarli approfondendo domande e vissuti problematici, di colludere implicitamente con la speranza del miracolo anziché portare a valore il senso della mancanza e del desiderio. Per avere a che fare con la tentazione del miracolo non c’è bisogno delle statue che piangono sangue: un terapeuta si confronta con la possibilità di tale caduta ogni volta che colluda con una domanda terapeutica incompetente, basata sul pensiero magico. “Mi aiuti a far sì che Andrea si innamori di me”; “Dobbiamo fare qualcosa per risollevare il morale di mia madre”; “Mi restituisca l’erezione che avevo vent’anni fa”; “Deve dirmi cosa pensa Margherita di me e perché s’è comportata in questo modo”: è proprio questo tipo di domande che il dolore cieco dei pazienti porta continuamente al terapeuta, eppure nel preciso momento in cui cedesse alla tentazione di scendere su questo piano ecco che egli, convertendosi in una grottesca figura di guru, santo o stregone, smetterebbe di offrirsi in quanto terapeuta risanatore. La voce interiore – più o meno consapevole – del paziente che chiede il miracolo assume all’incirca questi toni: “Da che mondo è mondo non si paga qualcuno per farsi porre sulle spalle un peso (peso della responsabilità della cura, del domandarsi, del porsi davanti all’infinita libertà), ma per esserne alleggeriti, va da sé che non posso accettare di doverti pagare affinché tu mi faccia lavorare. Davvero non ho mai immaginato di dover pagare qualcuno che già dapprincipio affermi di non potermi dare ciò che mi manca. Lo so che ciò che chiedo è impossibile ed è proprio per questo che sono disposto a pagarti bene, proprio perché tu ti assuma in qualità di psicoterapeuta la responsabilità di illudermi. Per questo ti pago, affinché tu possa alimentare la mia speranza di non dovermi confrontare con me stesso e soprattutto perché quando l’illusione sarà ormai tramutata in fallimento esistenziale io possa sfogare su di te la mia rabbia per non avermi saputo offrire nulla di più di un’illusione”. È il discorso capitalista dell’edonismo consumistico che parla con questa voce nei più che durano fatica a concepire come si possa pagare non per avere ma per non avere e poter essere.
Il mistero
Allora il diavolo lo condusse con sé nella città santa, lo depose sul pinnacolo del tempio, e gli disse: “Se sei Figlio di Dio, gettati giù, poiché sta scritto: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo, ed essi ti sorreggeranno con le loro mani, perché non abbia ad urtare contro un sasso il tuo piede”. Gesù gli rispose: “Sta scritto anche: Non tentare il Signore Dio tuo”. (Vangelo)
Per i pochi che, di tempo in tempo, tornano a domandare, per coloro cioè che affrontano nuovamente la decisione sull’essenza della verità. Per i rari che portano con sé il sommo coraggio della solitudine per pensare la nobiltà dell’Essere e parlare della sua unicità. (Martin Heidegger)
Quello del mistero in psicoterapia è un tema complesso e problematico la cui pietra angolare consiste nel fatto che il terapeuta è chiamato ad andare verso il mistero, è chiamato ad accoglierlo e approfondirlo, mentre allo stesso tempo egli è ogn’ora sottoposto alla tentazione di risolverlo e allontanarlo, imprigionando la trascendenza della mente all’interno di un rassicurante – quanto arido – atteggiamento dogmatico. Cedendo a questa prima il terapeuta inevitabilmente cede anche a una seconda tentazione, quella di trascinare i propri pazienti nella sua stessa caduta, relativa alla possibilità di sgravarsi dal peso della chiamata del mistero per mezzo della fede cieca in una qualsivoglia dottrina psicologica. Ogni qual volta un terapeuta concepisca una teoria come una realtà assoluta e valida per tutti, piuttosto che come uno spunto di riflessione offerto dall’esempio di vita unico e irripetibile di un dato autore, cade nella duplice tentazione di rifiutare l’apertura mentale offerta dal mistero e di usare la forza di tale tentazione umana per assumere il controllo (potere, denaro) sulla coscienza dei propri pazienti. Il celeberrimo complesso d’Edipo posto dal padre della psicoanalisi, il fallo come ultimo significante non significato di Lacan, il desiderio del bambino di divorare e svuotare il seno pensato dalla Klein, l’assunto di base di accoppiamento descritto da Bion, l’archetipo del vecchio saggio individuato da Jung, così come ogni altro costrutto appartenente alla storia del pensiero psicologico, se pensati come risposte valide per tutti (e quindi per nessuno in particolare) piuttosto che come l’espressione artistica di singolarità umane, produrranno un’azione non dissimile da quella dello psicofarmaco, avranno cioè l’effetto di neutralizzare la chiamata dell’angoscia che chiama l’essere umano verso il suo più proprio e autentico poter essere. Lo scrittore esistenzialista Irvin Yalom, nel suo romanzo “Sul lettino di Freud”, è splendido quando, descrivendo il desiderio inconscio di un ritorno ancestrale al retto paterno, ironizza sull’assurdità psicoanalitica della credenza cieca a tutto ciò che non sia una nuova, autentica scoperta, scaturita dall’esplorazione unica e irripetibile, vissuta nel qui e ora della relazione terapeutica. Quel che di più prezioso viene colpito dalla pochezza del dogmatismo teorico in psicoterapia, infatti, non è tanto la credibilità della nostra disciplina che in tal guisa viene – e a ragione – continuamente ridicolizzata: v’è una posta ben più alta in gioco, il valore e il significato dell’individuo, la cui essenza riposa nella sua irriducibile diversità e unicità. Il confronto con l’angoscia che si prova abbracciando il mistero della nostra esistenza costituisce la porta privilegiata verso la possibilità di entrare in contatto col nostro vero sé, poiché l’angoscia singolarizza, richiede cioè una risoluzione che di volta è la mia, è cioè unica, intima e personale. Il fatto che l’angoscia non possa risolversi attraverso ciò che già si sa, dovrebbe stimolare il terapeuta a inventare una nuova teoria su misura per ogni paziente, per ogni singolo percorso terapeutico intrapreso. È troppo facile insomma dare ciò che si ha (una teoria ad esempio); occorre andare incontro a ciò che ci manca. Solo avendo il coraggio di attraversare il mistero e di sfidare l’angoscia della perdita di senso, terapeuta e paziente possono sperare di scoprire un senso veramente nuovo che non sia già prefissato in un rassicurante protocollo di salute, appiattito sulla linea della medietà statistica. Occorre aver coraggio per resistere nel percorrimento risoluto della strada che s’inoltra nel mistero dell’impossibilità a definire a priori l’essenza dell’uomo. Soltanto la meravigliosa e meravigliata scoperta del nuovo, del diverso e dell’unico è comprensione dell’individuo, poiché l’essenza dell’individuo riposa in quegli elementi del suo essere che lo individuano nel suo individuarsi rispetto alla famiglia, che gli permettono di stagliarsi dallo sfondo dell’omologazione indistinta, che lo distinguono dalla media statistica e dalla medietà esistenziale. Una terapia che non assomigli alla visione di “Arancia meccanica”, che non coincida cioè con un intervento di tipo ortopedico, basato sul grottesco tentativo di raddrizzare ciò che si ritiene storto, sarà un processo che interverrà non solo sul mondo interiore del paziente ma anche su quello del terapeuta, poiché in un processo di questo tipo il terapeuta dovrà necessariamente incontrare e integrare nel proprio essere qualcosa d’inaspettato, di nuovo e di unico. Ecco perché se il paziente non diviene maestro del terapeuta quest’ultimo non potrà essere di nessun aiuto. La certezza è quindi il limite della conoscenza, è malessere mentale, è chiusura, paura del profondo, paura del potere del domandarsi. Il pensiero produce certezze cauterizzanti quando cede alla paura. Dostoevskij stesso nell’intolleranza religiosa e nazionalista in cui imbriglia col passare degli anni la portata della propria libertà mentale, cede infine a quelle stesse tentazioni che così mirabilmente aveva saputo svelare e contrastare. Chi non cade mai nella tentazione di interrompere l’avventuroso viaggio del pensiero è innanzitutto Gesù che coll’ultimo respiro si domanda: “Padre mio, perché mi hai abbandonato?”.
L’autorità
Di nuovo il diavolo lo condusse con sé sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo con la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò, se, prostrandoti, mi adorerai». Ma Gesù gli rispose: «Vattene, satana! Sta scritto: “Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto”» (Vangelo)
Voglio essere questo cilicio: che mi credano uguale a loro. Voglio questa crocifissione: che non mi ritengano differente. (Fernando Pessoa)
L’ultima tentazione a cui viene sottoposto Gesù dal grande spirito del male è quella di cedere davanti al potere. Per esserci il potere ha bisogno di contrastare il valore della diversità e unicità dell’individuo, poiché tale valore nel suo essere assoluto e imponderabile, nel suo esser posto al di là d’ogni possibile misurazione, non può che appartenere a ognuno e a tutti in egual misura; il potere ha cioè a cuore l’espianto delle unicità a favore dell’ingigantimento materialistico di un’unica unicità, la forma stessa del potere. Per lo psicoterapeuta inchinarsi dinanzi alla porpora di Cesare significa dunque prestarsi alla farsa di misurare l’anima, significa porsi come strumento scientificamente riconosciuto dall’istituzione per individuare, etichettare, patologizzare e infine correggere le diversità umane, gli scarti dalla media. Il potere davvero non potrebbe chiedere di meglio a un suo suddito!
A partire dai suoi albori (si pensi ad esempio all’influente scuola criminologica di Cesare Lombroso) l’istituzione psicologia ha troppo spesso coinciso con un meccanismo deputato a ricondurre sulla retta via dell’omologazione i devianti dalla media, gli individui creativi, indipendenti e autentici. La psicologia fondata sulla diagnosi statistica, nella sua tendenza a far coincidere la malattia mentale con la devianza dalla media, fa passare il messaggio secondo cui essere autentici coinciderebbe coll’esser malati, dato che quando siamo autentici manifestiamo la nostra creatività, la nostra naturale diversità, il nostro fisiologico e prezioso scarto dalla medietà. Essa patologizza la nostra essenza, ciò che ci rende noi stessi, vuol curarci dalla malattia di essere degli esseri umani; quest’antipsicologia è uno strumento repressivo e reazionario usato dal potere per rimanere al potere; questa psicologia che cede alla porpora di Cesare è antiumanistica, in quanto tende a svilire quegli elementi che custodiscono l’umanità dell’essere umano.
Dovremmo davvero pensare che secoli di riflessione psicologica non siano bastati a produrre una definizione di salute mentale che non coincida con l’appiattimento alla media statistica? O non dovremmo piuttosto prendere in considerazione il fatto che questo ostinato e cieco far coincidere la salute con la medietà trovi la sua origine nella repressione delle diversità promossa dal potere omologante?
Dall’alto il potere impone questa visione: “Il malato mentale da individuare tramite le tabelle nosografiche e da riportare sulla retta via attraverso farmaci, psicoanalisi ottocentesca e addestramento comportamentista è colui che devia dalla media omologata, colui che scarta dal centro della campana di Gauss, colui che si discosta dal comportamento medio imposto dal potere per mezzo dei media”.
La terapia per restituire all’individuo la propria autenticità deve opporsi alla normalizzazione delle diversità esercitata dagli pseudoscientifici organi del potere omologante. La terapia dovrebbe aiutare le persone a comprendere che il nucleo di ogni identità personale riposa proprio in quelle devianze dalla media che l’inautentica cura del potere si sforza di guarire e riportare sulla retta via del piattume della medietà.
Un terapeuta che non ceda alla tentazione del potere sente che la diversità, l’unicità individuale è un tesoro da rispettare, custodire, comprendere, valorizzare ed esprimere, perché in tale unicità riposa l’identità, il significato, il valore di ogni individuo.
Le tentazioni dello psicoterapeuta
ultima modifica: 20/11/2016
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