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Psicologia
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La microaggressione è un episodio di violenza, attacco o umiliazione velato, spesso agito senza che l’individuo sia consapevole del fatto che stia compiendo un atto di violenza nei confronti di una persona, che si sente sminuita e svalutata in relazione alla propria identità di genere, all’orientamento sessuale o alla propria etnia di appartenenza.
In particolare, sono soprattutto le persone transessuali a esserne vittime.
Le microaggressioni sono degli attacchi meno visibili ed espliciti rispetto ad altre forme di violenza. Ma rispetto a esse, hanno il carattere della ricorrenza. Ciò significa che le persone trans sono costantemente esposte a queste aggressioni, sono costrette a subirle in continuazione tanto da accumulare una forte ansia che le induce a un rifiuto delle situazioni sociali fortemente normative, come la scuola.
Ci sono tre diversi livelli di microaggressioni: gli attacchi, gli insulti e le svalutazioni.
Gli attacchi sono battutine intenzionali rivolte contro la categoria disprezzata, escludendone però la persona a cui ci si rivolge, come a volerla tirare fuori dal gruppo a cui effettivamente appartiene. Per esempio, se si è in compagnia di una persona transessuale e si prende in giro qualcun altro perché sembra trans, stiamo parlando di un micro-attacco.
I microinsulti, invece, stereotipizzano o umiliano un gruppo sociale in modo inconsapevole, non intenzionale. Il microinsulto è velato, è un dire per esempio “Sei bella per essere trans”, manifestando con questa frase un retaggio culturale per il quale le persone trans sono riconducibili di norma a persone brutte, con alcuni caratteri che si ripresentano in ciascun individuo, considerati non gradevoli. Di fatto, in questo modo, stai insultando sia la persona per quello che è, sia la categoria intera, alimentando uno stereotipo.
L’invalidazione svaluta la sofferenza che l’individuo prova quando viene attaccato. È la mancata accettazione che l’individuo venga offeso da quel che dico. “Visto che io non intendevo offenderti, tu non hai il diritto di offenderti” questo è il retropensiero che c’è nell’invalidazione. Se succede una volta, può passare. Ma il fatto è che le persone trans sono costantemente vittime di questo tipo di microattacco. I colpi si accumulano, uno dopo l’altro, giorno dopo giorno, causando una profonda sofferenza nell’individuo che vede messa in dubbio la propria sensibilità, il proprio sentire.
Il deadnaming e il misgendering: sottili forme di violenza
Indice
Esistono due forme molto frequenti di micro-aggressione contro una persona transessuale: il deadnaming e il misgendering.
Il deadnaming avviene quando si fa riferimento a quello che viene definito dead name (letteralmente traducibile con “nome morto”), il nome di battesimo della persona transessuale che lo identifica con il sesso biologico con cui è nato. In particolare, il deadnaming avviene sempre in ambito scolastico e si verifica sia in modo implicito che in modo esplicito. Chiedere a una persona trans quale fosse il suo vecchio nome è una microaggressione. Ma anche chiamare quella persona in quel modo, col “vecchio” nome è un’aggressione perché significa non riconoscere la sua identità.
Il misgendering, invece, avviene quando si sbaglia il genere di appartenenza della persona. Questo si declina nel senso della microaggressione, per esempio, quando due persone si conoscono, tra loro va tutto bene, poi quando uno dei due scopre che l’altro è transessuale, all’improvviso comincia a sbagliare il genere con cui si riferisce all’amico/amica.
Casi di misgendering avvengono spesso sulle pagine dei nostri quotidiani.
Pensiamo al triste caso di Maria Paola Gaglione, inseguita e speronata dal fratello in motocicletta mentre si trovava con il suo compagno, Ciro. Quando la vicenda è finita sui giornali, all’inizio, si è parlato di una relazione lesbica tra Maria Paola e Ciro, poiché il ragazzo è un trans FtM (Female to Male), una persona nata in un corpo femminile che sente di appartenere al genere maschile. Poi, quando si è cominciato a parlare dell’identità di genere di Ciro, in alcuni quotidiani e persino al Tg1 ci si riferiva a lui col femminile, addirittura chiamandolo Cira. Questo è misgendering, un errore nell’attribuzione del genere che, in questo caso, può derivare da ignoranza, da mancata informazione, da pregiudizio.
Anche mistificare, eroticizzare o “divinizzare” la condizione di un individuo in quanto trans, nero, asiatico etc. è una microaggresione. Accentuare la sua diversità, anche in modo positivo, è una forma di violenza perché si mette una distanza, una barriera.
La stessa assenza di una regolamentazione che protegga le persone trans è una microaggressione.
Spesso chi fa una microaggressione vive una dissonanza cognitiva.
“Sei bravissimo a ballare, si vede che sei nero, ce l’hai nel sangue”
“Sei bellissima, non avrei mai detto che sei trans”
Chi fa questo tipo di “complimenti”, cerca di elogiare la persona che ha davanti ma lo fa appiattendola sullo stereotipo legato alla sua categoria di appartenenza. Se dici “Non sembri trans” rivolgendoti a una persona transessuale, di fatto, stai rendendo l’identità trans qualcosa di negativo, legandolo ad alcune connotazioni fisiche stereotipate che fanno soffrire la persona chi hai di fronte.
Le conseguenze delle microaggressioni
Abbassamento del livello psichico, episodi di depressione, disturbi alimentari, binge drinking, binge eating, emozioni ad alto livello di attivazione come l’ansia. Queste sono le principali conseguenze psicologiche delle microaggressioni subite dalla persone transessuali.
Di base tutto questo crea il minority stress, lo stress della minoranza, che crea una ghettizzazione ancora maggiore perché chi appartiene a queste categorie sente su di sé il peso dell’esclusione sociale.
Esempi di microaggressioni alle persone transessuali
Le microaggressioni avvengono specialmente in ambito scolastico e in ambito sanitario.
Microaggressio nel contesto scolastico
Nel caso della scuola, il modo in cui si viene trattati dipende molto dal liceo frequentato. Di base, l’ambiente scolastico non è particolarmente inclusivo. I professori possono non accettare la tua identità. La scuola per riconoscere il fatto che vuoi identificarti in un determinato modo, spesso ha necessità di fare strappi alla regola.
In alcune scuole e università esiste la cosiddetta carriera alias che prevede un’identità differente collegata a quella anagrafica. Questo consente agli studenti e alle studentesse che stanno attraversando la transizione di farsi chiamare con il nome prescelto, senza aver prima cambiato i documenti.
Non tutti i licei e gli atenei, però, hanno attivato questo tipo di strumento. Laddove non esiste, può capitare che il preside faccia un “favore”, trasgredendo alle norme. Questo, però, cosa causa? I professori di ruolo sono informati quindi scelgono se usare o meno il nome d’elezione. Il problema si verifica con professori nuovi, di sostegno o di supplenza che fanno l’appello, leggono il nome ad alta voce e quando la persona risponde, reagiscono con frasi come “Non mi prendere in giro, dove sta questa persona?” oppure “Ma c’è un errore?”. In questi casi, si crea una dinamica di imbarazzo. Le persone trans vivono la difficoltà a sentirsi inclusi e per questo c’è una forte tendenza all’abbandono scolastico.
Microaggressioni in ambito sanitario
Spesso il personale sanitario non è informato né formato per gestire le persone in modo neutro. Pensiamo al caso di una persona trans che va a fare le analisi del sangue e che viene chiamato per nome e cognome con il megafono. Quella persona potrebbe non aver completato l’iter per il cambio dei documenti e quindi avere un aspetto che non si conforma al deadname, il nome che lo identifica con il sesso di nascita.
All’accettazione, dunque, i sanitari di fronte a una persona che appare come una donna, ma ha ancora un nome maschile, pensano di aver sbagliato. Potrebbero, allora, chiederti un documento per verificare che sia davvero tu. Così, la persona trans si trova a dover gestire una situazione imbarazzante di fronte allo sguardo di emeriti sconosciuti. Potrebbe accadere che i sanitari, diffidando di chi hanno davanti, mandino via il o la paziente.
Ma anche quando si supera l’ostacolo del banco di accettazione, la persona trans entra in ambulatorio con un carico di stress e ansia tremendo. Entra con la consapevolezza che le persone intorno stanno osservando, stanno giudicando, bisbigliano e parlano di te.
Altro esempio.
Pensiamo al caso di un incidente, di qualsiasi genere, per cui la persona deve essere ricoverata. In ospedale, anche se ha un aspetto femminile, verrà messa nel reparto degli uomini. E viceversa, pur avendo un aspetto maschile, se suoi documenti è “classificato” come donna, verrà messo nel reparto femminile. Questo, ovviamente, è causa di grande imbarazzo sia per il o la paziente, sia per chi si trova in quello stesso reparto. Sta alla sensibilità dell’ospedale scegliere se metterti da solo o da sola, garantendoti una certa privacy.
L’idea di dover fare un trattamento sanitario è ancora più pesante per una persona trans che sa di dover affrontare queste barriere sociali e culturali, ogni giorno.